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“[M]ettiamo in fila i fatti”, dice Marco Travaglio, “[p]rima di venire sommersi dalla prevedibile ondata di commenti sull’arresto di Massimo Ciancimino, quei commenti all’italiana fatti apposta per intorbidare le acque” (Il Fatto Quotidiano, 22 aprile 2011, p. 1). Massimo Ciancimino è stato sgamato a rabberciare maldestramente un pizzino di suo padre, don Vito, nel tentativo di incastrare l’attuale capo dei servizi segreti Giovanni de Gennaro, e Travaglio tenta di far luce a modo suo sulla vicenda. Lo scopo pare essere quello di salvare il salvabile tra tutto quanto riferito negli anni da un teste scarsamente attendibile, ma molto utile per continuare a sostenere l’ipotesi della trattativa Stato-mafia nella prima parte degli anni Novanta.
Nell’articolazione del suo pensiero, Travaglio dice cose condivisibili: “tutti e 150 i documenti consegnati da [sic] figlio dell’ex sindaco di Palermo, sono finora risultati autentici e per questo sono entrati in vari processi (per esempio quello a carico del generale Mori per la mancata cattura di Provenzano) e indagini (a partire da quella sulle trattative del 1992-’94) come indizi o prove. Perché, non essendo artefatti, sono una buona base di partenza per appurare se il loro contenuto sia anche la verità (e questo lo stabiliranno i giudici). […] In teoria, un solo documento falso non può cancellare gli altri autentici; né le intercettazioni in cui Ciancimino parla di soldi dati a politici (Vizzini, Cuffaro, il neoministro Romano); né le rivelazioni rese a verbale e già confermate da sentenze di primo e secondo grado, ma soprattutto da quei politici che hanno ritrovato la memoria vent’anni dopo quando [sic] li ha tirati in ballo lui”.
Benissimo, ma da tutto questo inizia a scomparire la trattativa, e cominciano ad emergere le singole, e più plausibili, ipotesi di reato: corruzione, concussione, abuso d’ufficio. E’ un editoriale che pare calmo e pacato, quello di Travaglio, finché non ci si addentra un poco oltre, avvicinandosi alla progressione finale. “Oggi Ciancimino, dopo due anni di stop and go, dovrà finalmente spiegare chi è davvero. Uno stupido pasticcione che rovina la propria credibilità falsificando un documento su 150, mettendosi contro il potente De Gennaro e portando lui stesso ai pm le prove della sua calunniosa truffa?”. E’ questa l’ipotesi di scuola di quasi tutti i giornali in edicola: quella del mafioso e truffatore, già beccato a vantarsi di essere l’idolo dell’Antimafia, che si spinge un passo troppo in là, fino a consegnare alla procura quelle stesse carte che lo incrimineranno.
Tutto qui? Verrebbe da chiedersi perché Travaglio abbia dedicato al tema il suo editoriale, premurandosi oltretutto di fare chiarezza anzitempo, prima che qualcuno intorbidisca le acque. Lo si scopre di lì a poco, continuando a leggere. Il nostro si lascia infatti velocemente alle spalle l’ipotesi, quasi banale, del raggiro perpetrato da un singolo ai danni di tutte le persone che sperano di gettare luce sulle stragi del ’92-’93 e sul clima di un’epoca, e prosegue: Ciancimino potrebbe essere “[u]n falso testimone infilato dalla mafia o da altri loschi ambienti per depistare le indagini su stragi e trattative[, l]a vittima consapevole o inconsapevole di qualcuno che gli ha fornito carte false[, u]n uomo ricattato e costretto a “suicidarsi” per screditare tutto quel che di vero aveva raccontato finora”.
Tutte congetture seguite da punti di domanda, ma già colpisce la faticosa complessità della tesi del suicidio assistito, affidato ad un falso e ad una perizia calligrafica. Strana, la maniera di fare chiarezza di Travaglio: quella che, senza il sostegno nemmeno di un indizio a corroborare un legittimo sospetto, formula illazioni rimestando nel torbido.

Were the disposal of human life so much reserved as the peculiar province of the almighty that it were an encroachment on his right for men to dispose of their own lives; it would be equally criminal to act for the preservation of life as for its destruction.
(…)
Do you imagine that I repine at providence or curse my creation, because I go out of life, and put a period to a being, which, were it to continue, would render me miserable? Far be such sentiments from me. I am only convinced of a matter of fact, which you yourself acknowledge possible, that human life may be unhappy, and that my existence, if farther prolonged, would become uneligible.

David Hume, On suicide, 1755

Un mio collega è stato a Gaza nel 2006, pochi mesi prima che le tensioni tra Hamas e Fatah degenerassero in guerra civile. Ha lasciato i Territori qualche settimana dopo; Vittorio Arrigoni, tra i pochi, vi ha fatto ritorno. Quando questo mio collega mi ha raccontato che, ai palestinesi che incontrava durante la sua permanenza, oltre a “Bella ciao” lui e i suoi amici insegnavano a cantare gli inni del Napoli – che questi scambiavano per altrettanti canti di guerra – , dapprima ho sorriso.
A pochi giorni dalla morte di Arrigoni, però, mi tocca constatare che il suo decesso ha avuto come unica conseguenza quella di smuovere la tenue patina di polvere che negli ultimi mesi si era a poco a poco andata a posare sull’odio — mentre le tensioni si moltiplicavano altrove, tutt’attorno, in Nord Africa e in Medio Oriente, e Rafah scivolava via in un lungo piano sequenza. A causa di Vittorio l’obiettivo è tornato brevemente a fissarsi su quei pochi ettari di terra: c’è chi grida al complottone israeliano, chi prega di notare il genocidio ignorato (il genocidio del boom demografico, contrappunta il buon Shylock), chi adocchia con sospetto la partigianeria di un cooperante. Si è tornati allo scontro, e anche chi affronta la vicenda nelle maniere più sottili, caute, persino tangenziali, se si voltasse vedrebbe che dietro di lui si raccolgono manipoli di tifosi: pronti ad avventarsi sulle sue parole, farle a brandelli e ostenderle ovunque, reliquie a testimonianza o scandalo della propria versione di giustizia.
I cori del Napoli in quel lembo di Mediterraneo hanno un senso, dunque. Innanzitutto, il conflitto arabo-israeliano polarizza le coscienze perché a questo tutti siamo abituati: a parlarne, come del calcio. Non c’è specialità della Terra Santa che non sia stata invocata a giustificazione dell’attenzione che costantemente le si presta – lo scontro di civilità, il valore simbolico di luoghi contesi da secoli, la sproporzione delle forze -, ma infine tutto si riduce alla parola, alla nostra logorrea, che incita ad esprimersi anche chi non conosce, magari prendendo a prestito le parole di altri, altrettanto logorroici.
L’incapacità di mantenersi lucidi non si limita tuttavia al brusio di fondo. Chi estrapola dal contesto interi paragrafi per sostenere impianti accusatori sempre più improbabili trova a sua volta la propria assoluzione in chi, più bravo o diligente di altri, quei paragrafi li ha costruiti. L’intellettuale qui traballa, è preso tra troppi fuochi, vuole dimostrare di essere fatto di carne e sangue e così, anche lui, attacca. E a te finalmente si para davanti agli occhi, in tutta la sua ineluttabilità, l’unica verità che non avevi ancora saputo riconoscere: che ogni Sud del mondo ha bisogno dei suoi capi curva.

Mi sembra di aver già sparpagliato una sorta di prototipo di questa nota altrove, qui sotto, ma non posso fare a meno di ritornarci: nelle ultime settimane quanto di più interessante mi sia capitato sotto gli occhi è stato scritto da un anarchico o da leninisti folli con il fusibile eziologico ormai in cortocircuito.
[Quelli di lotta comunista di febbraio, che ti sparano addosso, in batteria alternata: “Oscillazioni mediterranee, ancoraggio europeo”, “Gli esordi della Compagnie Financière de Suez”, “L’accordo BP-Rosneft ratifica la linea Putin” (poi parzialmente smentito da notizie seguenti la data di pubblicazione), “I militari al centro del modello egiziano”, “Il riarmo asiatico (…)”, “Un nuovo secolo del carbone (…)”].
L’uno dimostra il fallimento degli osservatori classici nel ricondurre ad un unico oggetto comprensibile, coerente e utilizzabile nel campo politico i tre mondi parzialmente coincidenti di estetica, etica e prassi; quegli altri si addentrano per i sentieri molto battuti e poco compresi delle analisi internazionaliste (ciniche o accorate, ma sempre sgomente; da farci poi la tara, è ovvio).
Capovolgendo il fronte, ma non troppo, c’è l’immancabile Luigi (chi è stato radicale e ne è poi uscito ha perso pure questo, che l’essere chiamati per nome cessa di essere dimostrazione di amicizia e intimità, per trasformarsi in appello politico; sembra quasi di dirlo “compagno”, ma lui sa che non è così).
Infine resta ancora l’ultraliberismo di Oscar Giannino, tanto prolifico nello scritto (infarcito di dati e cifre fino al collasso verbale) da dimostrarsi incapace di sorvegliare la sintassi. Sarà per ragioni di tempo, suppongo, dal momento che la sua loquela scorre tranquillamente come ossido di diidrogeno quando egli si trova a condurre o a moderare un dibattito, ma forse la sua scrittura da epifenomeno è divenuta cifra di un programma iperlibertario.  

Sto cominciando a pensare che sia necessario essere estremisti*, in Italia, per poter scrivere e parlare bene. Che poi significa, allo stesso modo, saper pensare. Malgrado indugi ancora per quella china moderata e nichilista, con il passare dei giorni mi convinco sempre più che i tempi di Gadda e Volpi siano (già) troppo lontani.

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