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Premessa: per elaborare uno scenario di massima delle elezioni generali britanniche del 6 maggio iniziamo con lo stabilire che le proiezioni sulle intenzioni di voto non possono non tener conto del balzo che hanno fatto i liberal-democratici tra il 15 ed il 16 aprile scorsi. Non avrebbe senso, perciò, elaborare su base statistica dati che appiattissero il voto verso quel partito ai risultati pre-boom; tenendo anche in considerazione che, all’opposto, almeno l’ordine di grandezza del salto LibDem è stato costantemente riconfermato negli ultimi giorni.

L’analisi prende perciò in considerazione i quattordici giorni precedenti il 30 aprile (16-29 aprile). In queste due settimane, la media voto e il suo scarto quadratico medio (variabilità media) per ciascun partito sono stati:
Tories 33,4 ± 0,9 % (regressione: y=32,1+0,172x; R quadro = 0,533)
Labour 27,6 ± 0,8 % (reg.: y=27,3+0,033x; R quadro = 0,029)
LibDem 29,6 ± 1,1 % (reg.: y=30,4-0,103x; R quadro = 0,141)

Coloro che s’intendono bene di statistica noteranno un paio di cose: anzitutto, la variabilità del voto verso laburisti e liberal-democratici è abbastanza alta da abbattere il valore di spiegazione della retta di regressione a valori piuttosto infimi. La tendenza del voto LibDem a variare è stata comunque più forte (LibDem ±1,1, Labour ±0,8). E sì: dopo l’exploit iniziale, i LibDem sono in (leggera) controtendenza, come racconta la retta di regressione. All’opposto la variabilità laburista è mitigata dal fatto che essa non abbia una direzione precisa.
Ciò che si può fare, comunque, è seguire le tendenze e azzardare le intenzioni di voto medie dei prossimi sei giorni. Queste le mie previsioni:

Tories 34,43 %
LibDem 29,0 %
Labour 27,8 %
Altri 8,8% (variabile di controllo, perfettamente in linea con la media dei sondaggi pre-elettorali delle ultime due settimane)

Ebbene sì: il Labour terzo partito in Gran Bretagna e Nick Clegg che sogghigna. Ma non ci sarà tanto da ridere, perché si avvicina una bella gatta da pelare per tutti. Il sistema elettorale inglese, infatti, è il contestatissimo first past the post, di cui tutti abbiamo sentito parlare e che tutti vorrebbero modificare (salvo i laburisti, per ragioni che saranno evidenti tra pochissimo): questo sistema premia la concentrazione elettorale del voto. E quando la distribuzione percentuale del voto interagisce con quella geografica, il risultato della proiezione con i numeri attuali conduce ad un memorabile esempio di hung parliament. Un risultato, cioè, dove nessuno raggiunge la maggioranza assoluta dei seggi, e che aprirebbe un periodo di crisi durante il quale il parlamento resterebbe ‘sospeso’ sopra un futuro incerto. Un fatto inusuale per un paese che nel secondo dopoguerra si ritrovato soltanto una volta – nel 1974, e per pochissimi mesi – governato da un gabinetto di minoranza, e che nello stesso periodo non ha dato mai adito ad una coalizione postelettorale. In caso di ‘hung parliament’ la Regina, seguendo un’affermata consuetudine, potrebbe incaricare il premier uscente di iniziare i negoziati per formare un nuovo governo. Sì, proprio Gordon Brown, quel premier a capo della formazione che uscirebbe più sconfitta dal voto. Dovremmo parlare anche della sua successione, che in maniera sempre più probabile potrebbe essere repentina e brusca, ma questo è un discorso più complesso: forma e intensità della rivolta contro Brown potranno essere stabilite soltanto dai risultati veri e propri e da un paio di dinamiche postelettorali.
E insomma, dopo tanto ciarlare ecco la mia stima della distribuzione dei seggi, con le varie forbici.

Conservatori 268 (272-241)
Laburisti 263 (282-253)
LibDem 90 (108-88)
Altri 29

Maggioranza: 326

Cioè, messa in un altro modo:

Tories 268 ± 15,5 (con tendenza al ribasso)
Laburisti 263 ± 14,5 (direzione incerta)
LibDem 90 ± 10 (tendenza al rialzo)

I laburisti resterebbero seconda forza, e molto alle calcagna dei conservatori; e la differenza potrebbe addirittura assottigliarsi. I LibDem, lontanissimi, pagherebbero la forte dispersione territoriale dei loro elettori.

Per finire, un altro giochetto. Date suppergiù queste grandezze relative, con tutte le loro varianze, qual è il numero di voti che ciascun partito dovrebbe raggiungere (al variare massimo della forza elettorale degli altri due) per potersi assicurare con la maggior frequenza una pur risicatissima maggioranza assoluta ed essere in grado di governare da solo?
Secondo le mie stime:

Conservatori 37,8/39,0 (media: 38,4)
Laburisti 31,5/34,3 (media: 32,9)
LibDem 41,6/41,6

Cioè: Tories e Labour dovrebbero disattendere in meglio le attese (già controllate per la tendenza delle ultime due settimane) rispettivamente di 4 e 5 punti percentuali. E’ vero, i conservatori si avvicinano alle urne forti di una tendenza al rialzo piuttosto salda, mentre il voto laburista è soltanto stabile, perciò qualche speranza in più i Tories ce l’hanno. Ma si tratta davvero di estremo wishful thinking.

In sei giorni tutto può cambiare. Ma non ha senso impelagarsi tra dati e cifre se poi non si ha voglia di prendere posizione, specialmente quando l’azzardo appare minimo. E dunque parlamento sospeso, impiccato, o comunque lo vogliate chiamare.
Scommettiamo?

As in: uno dei migliori cinque dischi degli anni Novanta.

Per chi non l’avesse ancora notato, la BBC ha allestito il miglior strumento per comparare le offerte politiche dei partiti inglesi alle elezioni del 6 maggio. In basso trovate le proposte, che diventano più chiare se le copiate, incollate e le suddividete per punti.
Io l’ho fatto per ciò che mi interessava: confrontare le proposte dei Tories, del Labour e dei Lib-Dem per le questioni di politica economica, estera e di difesa.

Più in generale, i programmi politici si trovano sui tre siti ufficiali dei partiti. Il programma economico dei laburisti inizia qui e si articola qui; della politica estera e di difesa si parla qui. I conservatori descrivono qui il loro progetto di politica economica, qui le posizioni sulla difesa e qui la politica estera in generale. I liberal-democratici parlano di economia qui, delle relazioni estere qui.

Un paio di articoli da leggere sono quelli dell’Economist e del Guardian:

A tutti gli osservatori, buona analisi; a tutti i votanti, sorprendeteci.

L’amministrazione americana chiama l’accordo per la riduzione delle armi e dei vettori nucleari “New Start“, e così ormai lo conosce l’opinione pubblica. In questo modo l’entourage del presidente Obama intende segnalare la convinzione che lo Start costituisca la naturale conseguenza del ‘reset’ delle relazioni russo-americane proposto l’anno scorso.

Al di là della retorica, che ha come sempre molto poco a che vedere con le dinamiche reali delle relazioni internazionali, in particolare tra stati che non si amano, la scelta di un simbolo tanto forte per il nuovo trattato e la decisione di tessere le lodi dell’accordo ben oltre la reale portata delle disposizioni che esso contiene – e che pure sono importanti sia da un punto di vista pragmatico e di breve periodo, sia se inquadrate in un’ampia prospettiva storica -, rischia di complicarne il cammino verso la ratifica in Senato.

La Costituzione americana richiede (art. II.2) una maggioranza di 2/3 dei senatori per ratificare i trattati internazionali (67 senatori, oggi). Negli ultimi giorni si sono levate molte voci per esprimere dubbi sulla reale possibilità che una tale supermaggioranza possa essere messa insieme con la composizione attuale (59 D, 41 R), considerando la difficoltà di raggranellare i 60 senatori necessari al passaggio della riforma sanitaria. In altri tempi avrei seriamente dubitato che i senatori repubblicani avrebbero ceduto alla tentazione di cassare il trattato, a meno che nelle settimane precedenti non vi avessero costruito attorno un’importante campagna sfavorevole. Il punto è che il rischio che Obama sta correndo è quello di eccedere con le lodi (oversell) mentre, dall’altra parte, le obiezioni di Lieberman non sono del tutto irragionevoli.

Inoltre il popolo dei tea party, radicalmente ‘contro’ per costituzione, avrebbe gioco facile a farsi strumento del mercimonio politico, lasciandosi corteggiare e poi convincere dagli argomenti dei senatori per poi fare da cassa di risonanza di opinioni che in condizioni meno instabili sarebbero rimaste confinate ad una minoranza; tanto più che le dirette conseguenze della mancata ratifica non ricadrebbero all’istante sulla popolazione. Insomma, la classe politica repubblicana potrebbe scegliere di ignorare gli effetti a lungo termine della fine dello Start pur di ottenere guadagni marginali nell’immediato, verso le elezioni di mid-term di novembre.

Per questo torna ad affacciarsi un’ipotesi molto interessante: Obama potrebbe ricorrere ad una scappatoia, la stessa che adottò Nixon quando propose la ratifica del Trattato per la limitazione delle armi (nucleari) strategiche nel 1972.
Nixon scelse di proporre la ratifica del Salt attraverso un accordo esecutivo congressuale (congressional executive agreement): uno strumento differente dalla ratifica, ma che la Corte Suprema ha in più di un’occasione ritenuto valido a suscitare gli stessi effetti legali di una ratifica in ambito internazionale. In sostanza nel caso Obama scegliesse la via di un executive agreement si tornerebbe al procedimento legislativo normale: la ratifica non sarebbe più competenza del solo Senato ma di entrambe le Camere, che però delibererebbero a maggioranza semplice, sgravando l’amministrazione dal difficile compito di scovare i 67 senatori favorevoli. Ci sono dei limiti ratione materiae per poter utilizzare lo strumento, ma il Nuovo Start sembra muovervisi tranquillamente al loro interno. E poi c’è, come dicevo, il precedente di Nixon. Il trattato non era identico, ma simile a questo per ciò che rileva: la sua durata limitata e la materia oggetto dell’accordo bilaterale.

Qualora Obama scegliesse questa seconda via aspettatevi ogni tipo di protesta. Ma più che pestare i piedi i repubblicani non potrebbero fare. La via dell’accordo esecutivo congressuale sembra la via più semplice e, in fin dei conti, la migliore strategia nel caso una supermaggioranza risultasse irraggiungibile, way out of reach.

Nota bene. A chiunque si stia chiedendo cosa c’entri l’immagine iniziale con il contenuto dell’articolo: nulla, ma è fantastica.

Il nostro Robert Gates torna alla ribalta delle cronache americane: in un documento riservato sarebbe tornato a vestire i suoi panni di falco. Di mezzo falco, però, badate; un falco impanato ben bene dal portato del milieu obamiano.
Se Reagan avesse potuto leggere questo documento, l’ex vicedirettore della Cia gli sarebbe parso un agnellino. Per me regge ancora la tesi dello spirito dei tempi.

Allora, occhio. La Cina darà il suo appoggio all’inasprimento delle sanzioni all’Iran soltanto se il rapporto del Tesoro americano di giovedì non dirà che lo yuan è sottovalutato oltre le intenzioni di rivalutazione del governo cinese.
E’ su questo sottile gioco al rialzo che si snodano le possibilità di nuove sanzioni, perciò non badate allo strambo titolo trionfalistico del Corriere.

Update 15/04. Mi chiedevo che fine avesse fatto il rapporto, e con una rapida ricerca l’ho trovato: il 3 aprile la Casa Bianca l’ha rimandato “di molti mesi“. Una considerazione delle implicazioni la trovate già là dentro, perciò mi limito a citarla:

The decision may improve US relations with China but could upset some American lawmakers.

Me l’ero persa, scusate.

Tra le tante che il Rocca spara su Camillo, giorno per giorno, si tratta almeno di smentire le più grosse. Ne scelgo una nella quale mi ritengo sufficientemente ferrato da non dover compiere ricerca, ché non ho moltissimo tempo.
Rocca sostiene che: a) Obama sarebbe più realista di Bush II, e per questo ‘di destra’; b) Obama ha strappato a Mosca la firma del nuovo Trattato di riduzione delle testate nucleari grazie alle concessioni fatte al regime di “Putin (ok, di Medvedev)”, in particolare attenuando le critiche sui diritti umani; c) il Trattato ha una portata molto limitata, “risibile (…) rispetto agli accordi firmati da Bush e Putin in passato”.

Vediamo di rispondere, punto per punto.

a) Realismo e idealismo. Una politica estera realista non è una politica di destra, così come una idealista non è mai stata necessariamente una politica di sinistra. Christian ce la mena da due anni con questa storia, ma non ha ancora saputo spiegare in cosa si distinguerebbero politiche estere ‘di destra’ e ‘di sinistra’, fatta salva la tautologica assegnazione di politiche realiste ed idealiste ad una e all’altra parte dell’atlante delle appartenenze. Di qui, poi, si inferisce un supposto quanto involontario ‘scambio in culla’ delle politiche estere: da Bush in poi ad aver sostenuto politiche realiste sarebbe stato il candidato democratico, ormai inconsapevolmente lontano dalla sinistra, mentre l’unico portatore di idealismi sufficientemente sani sarebbe stato il destrorso. E così chi è repubblicano ha condotto delle guerre, ma in nome di ideali di sinistra – e finalmente capiamo lo scopo di tutto questo bel cavillare: Rocca ha trovato il pretesto astorico per difendere gli interventi di Bush, e insieme cercare di tirare i suoi lettori sulla barca costruita con il suo sillogismo malfermo – e chi è democratico avrebbe tradito la sua causa in nome prima della pavidità, adesso della realpolitik.
Tutte affermazioni superficiali, e se serve spiegarne la ragione urge un ripasso di storia e analisi delle relazioni internazionali. Ricordando, almeno, che al primo posto della shopping list elettorale di qualunque presidente statunitense c’è e c’è sempre stato l’interesse dell’America, e che dunque qualunque politica idealista (già, addirittura quella di Carter) si muove in una prospettiva specificamente nazionale, comprendendovi le sirene della pace democratica che sedussero l’opinione pubblica americana – ma per un brevissimo periodo, si parla di mesi – nel 1979 e poi nel 1993.
Un ultimo appunto, tanto per definire per bene ‘sinistra’ e ‘destra’ nel dibattito interno, ché altrimenti saltano tutti i riferimenti e ci toccano le aporie del Rocca: Obama si muove in questo caso sullo sfondo di un utopico orizzonte che prevede la totale eliminazione degli armamenti nucleari (anche se, certo, ‘perhaps not in my lifetime‘). Questo è un approccio prettamente idealista: talmente idealista che Obama è disposto a mettere da parte altri ideali, come la difesa dei diritti umani nei regimi autocratici, pur di realizzarlo.
Siccome, però, la maschera idealista in questo caso potrebbe benissimo servire a coprire scopi ben più realistici e limitati (vedi sezione c), un suggerimento spassionato che mi sento di dare al Rocca è quello di mettere da parte la salomonica assegnazione di ‘spiriti di politica estera’ quando urge distinguere tra Barack e George, ché ci si sbatte spesso contro senza neanche accorgersene. Meglio limitarsi a dibattere i fatti.
I fatti, giusto. E dunque:

b) Obama e la politica verso Mosca. L’attuale presidente degli Stati Uniti avrebbe adottato un approccio più morbido verso Mosca se paragonato alle relazioni quasi costantemente tese, che datano almeno dagli ultimi due anni del secondo mandato di Bush e non dalla guerra con la Georgia (ricordiamo, per esempio, 1, che scatenò 2) sostiene Rocca. Che spesso si dimentica, e qui non fa eccezione, che la Russia ha fatto l’elastico anche durante l’ottennato di Bush, salendo più volte sul carro americano quando a Mosca faceva comodo disporre di una categoria ermeneutica di massa (“terrorista”) per classificare il nemico interno – i guerriglieri ceceni – come un ‘male assoluto’ con il quale non si negozia, e per avocare al governo centrale la scelta dei governatori locali.
Ma è vero che Obama ha deciso di ‘premere il pulsante Reset‘. L’ha fatto perché la sua politica estera punta in questo momento ad un obiettivo differente. Nessuna nazione al mondo può risolvere contemporaneamente tutti i problemi che le si presentano: come sempre si soppesano costi e benefici, lo si fa in relazione alle minacce percepite, e poi si fanno delle scelte. Se occorre il consenso russo per firmare una nuova riduzione degli armamenti nucleari e riaprire, di fatto, il capitolo di un negoziato che sembrava chiuso da quasi un decennio, l’unica cosa da tenere in considerazione è ciò che si sacrifica.
Ecco, appunto: cosa si sacrifica? Allo stato attuale si può tranquillamente rispondere: uno status quo non modificabile. L’Abkhazia è occupata – ora dichiaratamente – dai russi, e gli Stati Uniti non hanno la minima prospettiva di riuscire a strappargliela. L’Ucraina si riavvicinerà a Mosca (ma non del tutto), la Bielorussia non se n’è mai staccata, gli stati baltici fremono un po’. I paesi dell’Europa centrale lamentano abbandono per la sofferente memoria storica e perché in tempi di crisi pare logico racimolare i finanziamenti a pioggia che una base o un sistema radar porterebbero con sé, assieme all’indotto generato dall’accresciuta presenza militare. Ma le probabilità di un attacco nucleare russo (o iraniano – sic!) verso l’Europa centrale quante sono? Nulle. Di nuovo: status quo.
L’idealismo di Bush, ammesso che nelle relazioni con Mosca sia mai esistito, può tranquillamente andare in soffitta: firmiamo il trattato, poi si vedrà. E i diritti umani? Sostenere che l’amministrazione non preferirebbe che fossimo tutti liberi e felici è una posizione indifendibile, e infatti lo si può solo dire a mezza voce, en passant, come Rocca fa nel suo articolo.
E quindi ripetiamo, ammesso e non concesso che l’approccio di Bush nei confronti della Russia fosse un approccio idealista (si trattò in realtà di un’accozzaglia di riesumazioni strategiche dalla cantina della storia, genericamente riassunte nel revival dello scudo spaziale), un approccio idealista sui diritti umani nei confronti della Russia oggi non otterrebbe alcun risultato e, anzi, renderebbe nuovamente tese relazioni che è invece necessario tenere sotto controllo per poter agire con più efficacia altrove (di nuovo, vedi sotto).

c) Il trattato, sebbene non sia storico, non è affatto risibile. Bush e i suoi lungimiranti strateghi (con l’attenuante dell’11 settembre, ma diamine, non siamo qui tutti i giorni a concedere a Truman l’attenuante di Pearl Harbor ) rischiarono di mandare in vacca qualunque progresso possibile ritirandosi dal Trattato ABM per sviluppare un geniale quanto inutile e mai applicato progetto di ‘scudo anti-missile antiterrorista’.
Rocca, poi, non dice la cosa più importante di tutte: che il Trattato firmato da Bush e Putin nel maggio 2002, che limita il numero di testate schierate (lo Start 2010 limita anche il numero massimo di vettori), non disponeva di un meccanismo di controllo per permettere di verificare l’effettiva attuazione della riduzione, e che Bush dovette dare l’ordine unilaterale di tagliare i missili schierati senza poter sapere se Putin stesse per fare lo stesso. Uno splendido segnale di leggerezza strategica.

La firma del nuovo Start, inoltre, fa parte di una strategia complessiva di avvicinamento alla questione nucleare per mettere in minoranza le posizioni favorevoli all’Iran nel Consiglio di sicurezza Onu e contenere le ambizioni nucleari di Teheran. Sul lungo termine, la Conferenza sul riesame del Trattato di non-proliferazione tenterà di ridurre i rischi associati alla diffusione del possesso dell’arma atomica o dei materiali per costruirne una.
L’amministrazione Obama ha concentrato ad aprile tutta una serie di incontri bilaterali e multilaterali, ha prodotto documenti fondamentali per incardinare la nuova strategia di politica nucleare attorno alla ridefinizione della politica estera della Casa Bianca, e la firma dello Start 2010 è un tassello per prepararsi al grande evento di maggio. Una succinta agenda di questo mese e del prossimo, per chi si sia perso gli appuntamenti e per non rischiare di perdersi quelli che verranno, evidenzia il numero degli incontri nei quali riveste sicura importanza la questione della riforma delle strategie di deterrenza nucleare:

6 aprile: Washington pubblica la nuova Nuclear Posture Review.
8 aprile: firma del nuovo Start.
8 aprile: dopo la firma del trattato, Obama incontra i capi di stato di undici paesi dell’Europa centrale e orientale per rassicurarli che l’impegno statunitense sul ‘cappello’ nucleare non verrà meno.
12-13 aprile: summit a Washington tra 47 paesi del mondo sulla messa in sicurezza del materiale nucleare che potrebbe sfuggire al controllo governativo (‘loose nukes’).
13 aprile: incontro tra Hillary Clinton e Sergei Lavrov – per discutere, anche, delle nuove strategie nucleari.
13 aprile: Stati Uniti e Russia firmano un accordo per ridurre le scorte di plutonio ‘weapons-grade’, cioè utile a produrre armi atomiche.
22 aprile: riunione informale dei ministri degli Esteri della Nato, per discutere, oltre che dell’aggiornamento dell’ormai vetusto concetto strategico, anche di sicurezza nucleare.
3-28 maggio: Conferenza sul riesame del Trattato di non-proliferazione nucleare.

Insomma: Obama sembra avere, almeno in questo caso, una strategia globale. Esattamente quello che per otto anni è mancato all’amministrazione Bush.

La miglior analisi sul Kirghiz’stan che mi sia capitato di leggere o sentire oggi proviene, neanche a dirlo, dai microfoni di Radio Radicale (qui, spezzone delle 19.16, da 83’12” in poi; mp3). Si tratta di una chiacchierata-intervista molto lunga, circa venti minuti, ma è perfetta per farsi più di un’idea del paese, e ritrovarsi in mano parecchi spunti su cui ragionare.

Per un’emergenza imprevedibile, un’altra ampiamente prevista: c’è chi negli Stati Uniti sta già stilando dei modelli di piani d’azione d’emergenza per l’amministrazione americana nel caso in cui le elezioni in Sudan provochino una nuova escalation del doppio/triplo conflitto est-ovest e nord-sud-sudest.

E così mi son detto: insomma, perché non inauguri una serie di post in cui suggerisci letture che hanno a che fare con ciò che avviene o è avvenuto nel recente passato, letture non facilmente accessibili, né necessariamente interessanti, genericamente lunghe e sicuramente stancanti?

Sì, mi son detto: sarebbe perfetto per far affezionare i lettori di questo blog! Perciò, ecco qui:

  • una variazione sul tema, nella quale una manica di economisti spiega perché, nonostante tutto, l’Europa rischia più degli Stati Uniti
  • una buona testimonianza del tempo che ci si impiega per produrre un documento sensibile (l’avete già capito, parlo di questo: l’amministrazione è stata così buona da aver deciso di distribuirne pubblicamente una versione depurata, sì, ma corposa, che voi non potrete fare a meno di leggere – anzi, vi limiterete all’Executive summary, ma senza dimenticare che non si può studiare la NPR senza tenere in considerazione la Quadriennal Defense Review – tanto pompata quanto ordinaria, ma voi non lo saprete finché non l’avrete letta)
  • il magnifico leader dell’Economist di un paio di settimane fa sullo stato delle scienze del clima (e il ghiotto articolo su Le scienze di aprile, ‘Le vere lacune dei modelli climatici’: non ne vale la pena, per più che l’articolo è accostato ad un’accozzaglia di altri saggetti che sciolti in acqua generano un amalgama purulento sulla necessità di cambiare la Terra altrimenti noi si muore tutti, e di cambiarla molto stilosamente, verso Terra 3.0, quando all’improvviso un tizio fa irruzione con un discorso molto bakunian-luddista sulla deterministica necessità di abbandonare l’idea di crescita e tornare candidi a coltivare il nostro giardino – ma non era un’evoluzione verso un nuovo sistema sostenibile?, vi domanderete, sfoogliando l’atlante del Nuovo mondo e chiedendovi dove cazzo si trovi Arcadia – e insomma, la lettura de Le scienze è sconsigliata, ma voi non potete saperlo, perciò leggetevi anche quello)
  • Austerlitz di Winfried Georg Sebald.

Un video, per quanto artigianale, è più utile di qualunque analisi scientifica per illustrare la dabbenaggine di Giampaolo Giuliani.
Alle due di stanotte sono incappato in un’intervista al Giuliani per Radio Radicale, che trovate anche qui, frammento delle 14:04 (mp3 scaricabile qui). Ho a stento sopportato il servilismo quasi succube dell’intervistatore, Alessio Falconio, ma tutte le volte che ho desiderato cambiar canale per porre fine alle mie imprecazioni – non sempre mentali -, la curiosità di capire sin dove si sarebbe spinto Giuliani mi ha impedito di farlo. Il nostro non evita di citare il suo libro-verità, che qui volentieri vi risparmio.
C’è però un’altra intervista che la notte è andata in coda a quella di Giuliani, e che mi ha trattenuto dal lanciarmi in biliose invettive contro la parzialità dell’informazione radiofonica. Dal sito è reperibile nella registrazione che parte dalle 19:13 (sempre qui; mp3), più precisamente a 14’06” dall’inizio del frammento. Provate a fare il confronto tra le mai documentate illazioni di Giuliani e le ricerche, quelle sì fondate su studi scientifici e sul consensus consolidato della comunità scientifica internazionale, di Antonio Piersanti (dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, sezione di Sismologia e Tettonofisica), e chiedetevi se in realtà non bastasse il video a spiegare già tutto: è perfettamente comprensibile che una personalità moderatamente disturbata cerchi nella scienza giustificazioni ex post per spiegare le tragedie che nessuno è ancora in grado di prevedere. Non, però, che le spacci per verità quasi dogmatiche, e che poi ritratti con generici appelli ai tanti ‘altri precursori sismici’.

*

Sì, lo so: occorre un supplemento d’indagine sulla mancata messa a norma delle costruzioni abitative in una zona ad elevato rischio sismico, ma tale lavoro d’inchiesta è stato svolto benissimo altrove, da un anno a questa parte. Qui ci si limita a segnalare le farneticazioni di chi, a distanza di dodici mesi, non ha ancora compreso come funzioni un calcolo probabilistico e la modellistica sismologica; o che forse l’ha capito, ma ha bisogno di soldi, attenzione mediatica, risposte alle sue paure più profonde.

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